Aden e Jedda circumnavigando l'Africa
Da: i viaggi con mio padre quando
doppiai Capo Augulhas alla volta della Penisola Araba.
Aden e Jedda
circumnavigando l’Africa
Un viaggio particolare quello
compiuto all’età di undici anni, nell’agosto
del 1957, sempre con mio padre. Più
lungo del solito a causa degli strascichi dei “venti di guerra” scoppiati nell’autunno del 1956, terminati
storicamente nel marzo del 1957.
Attraversare il Canale di Suez era ritenuto ancora troppo rischioso. Di conseguenza la decisione della
Compagnia di Navigazione di circumnavigare l’Africa per raggiungere
Aden protettorato inglese nell’allora
Yemen del Sud e Jedda in Arabia
Saudita.
Già di per se questi due mondi,
all’apparenza simili per la comune fede musulmana ma di fatto diversi, nascondevano
insidie nel visitarli. Senza dimenticare i tabù
esistenti da dover rispettare come occidentali cristiani ritenuti ancora “l’infedeli”.
Pur nelle difficoltà contingenti,
il viaggio però presentava diversi aspetti interessanti, di scoperta, di lunga
navigazione (da Genova ad Aden senza scali intermedi).
Molti giorni sempre in mare sia
all’andata che al ritorno costeggiando, si fa per dire all’andata, le coste
africane. Si fa per dire perché sulla carta le coste non erano lontane ma
assolutamente invisibili da bordo. Al ritorno no. E il motivo ci fu.
Raggiungemmo lo stretto di
Gibilterra entrando nell’Oceano Atlantico che navigammo in tutta tranquillità. Roba da croceristi.
Trascorrevo le mie giornate sempre
in “plancia”, il ponte di comando, a
seguire le rotte tracciate sulle carte nautiche, a fare il punto nave con le
stelle o con i fari delle Isole che a mano a mano incontravamo.
Passammo al largo delle Isole
Canarie puntando verso l’Isola di Santa
Maria dell’Arcipelago di Capo Verde, di fronte alle coste del Senegal e
della Mauritania senza vederle. Da lì dritti verso l’Isola di Sant’Elena, di napoleonica memoria, lasciandola sulla dritta
o tribordo alla deriva dell’infinito blu dell’Oceano dopo averla superata.
Poi dritti dritti su Capo di Buona
Speranza, ritenuta ia punta più a sud del continente africano e del nostro
viaggio. Anche se, in verità, la vera punta sud e spartiacque tra oceano
atlantico e indiano, è Capo Agulhas.
Doppiati i due capi (Buona Speranza e Agulhas), lasciato l’Atlantico, entrammo nell’ Oceano Indiano, anch’esso tranquillo, direzione Isola Madagascar. La raggiungemmo di notte e fu uno spettacolo per la particolare illuminazione da parte della Luna.
Chiariscuri pennellati su di una tela immaginaria a significare volume (l’isola montuosa), materiale (i villaggi, le palme, la vegetazione), spazio (insieme di mare, cielo e la scia argentea della luna riflessa sulle onde). Ore e ore immerso in questo spettacolo dato dal paesaggio. E l’alba non fu da meno annunciando lo splendore dei colori causati dal sole.
Subito a tribordo (dritta) un
altro spettacolo. Questa volta dato dall’Isola
de La Réunion formata da vulcani emersi dall’oceano e dominata dall’unico
ancora attivo: il Piton de la Fournaise
alto 2632 metri. Incrociammo una nave da crociera italiana, la Franca C (C per Costa) che, per diverse
miglia, ci fece compagnia allontanandosi poi verso l’Arcipelago delle Seychelles. Noi la salutammo con prolungati fischi
patriottici contraccambiati.
Dopo due giorni di navigazione avvistammo l’Isola di Kilmia entrando nello stretto del Corno d’Africa. Respirammo aria araba. Di fronte a noi la prima meta: il porto di Aden.
Aveva termine la prima parte del viaggio, quello fantastico della lunga navigazione, emulazione fanciullesca del periplo d’Africa, emulazione dei grandi navigatori come Bartolomeu Dias che lo doppiò per primo.
Un viaggio all’interno di un Atlante
di geografia ; Canarie, Capo Verde, Sant’Elena, Madagascar, Reunion, in
lontananza le Seychelles, per arrivare alla porta d’ingresso di un’altra
avventura.
Avventura in quel mondo arabo
diverso che trovai ostile, medievale, cruento, al posto di quello sognato tipo
“Mille e una notte”, all’ombra dei minareti.
Un mondo che, agli occhi di un ragazzino di undici anni, sembrò finto, apparente, illusorio. Essere arrivati fin lì e vedere Aden dal porto, solo dal ponte di comando della nave, ascoltare in lontananza il vocio dei suoi abitanti, i clacson delle auto a terra e qualche sparo qua e là a ricordare una guerriglia latente.
Respirare la tensione a bordo con
l’equipaggio, tutto l’equipaggio, che non vedeva l’ora di “mollare gli ormeggi”
e fuggire il più lontano possibile. E
gli occhi neri, profondi, degli yemeniti
addetti allo scarico delle merci, occhi di chi ti guardava come nemico, pronti
a vendicare “l’oltraggio” nel nome di Allah.
Mi ero preparato ad una visione
diversa di Aden, così come descritta da
Marco Polo: <<Ed in questo porto caricano li mercatanti loro mercatantie
e mettole in barche piccole… pepe ed altre ispezierie di verso Aden; e dal
porto d’Aden si partono le navi, e ritornasi cariche d’altre mercatantie e
riportale per l’isole d’India>>.
Mi ero immaginato camminare nei
souk, immerso nei colori delle botteghe di stoffe, nei profumi delle spezie,
nelle cantilene dei vari dialetti arabi. Niente di questo fu Aden.
Ormai ero un “veterano” dei porti
arabi, simili all’apparenza ma tanto diversi tra loro. Quello di Aden rimarrà
il porto misterioso, inspiegabile, inaccessibile per gli eventi in corso. Solo alla
sera, nel momento della preghiera, mentre le voci dei muezzin invadevano con i loro canti le strade, le piazze,
scendeva su tutta la città la calma, la tregua. Nessun sparo ma solo preghiere.
Doppiare l’isola di Perim,
lasciare a babordo (sinistra) le Isole Hanish alla volta dell’arcipelago Farasan
nella parte meridionale del Mar Rosso per arrivare a Jedda, fu una liberazione.
Anche se Jedda mi attendeva con sorprese insolite, inusuali e allo stesso tempo
macabre.
Il mio desiderio a Jadda? Cercare i resti della porta d’ingresso alla città, la mitica Bab Madinah, dove la leggenda racconta che si trovasse la tomba della “prima donna”: Eva.
Non trovai né porta né resti di
tombe. Rimase nei miei desideri solo la leggenda.
Jedda ufficialmente off limits, vietato scendere dalla nave
per visitarla perché considerato un “infedele”.
Con la complicità dello spedizioniere locale, seminascosto da un copricapo arabo, ci riuscii assistendo alla preghiera del venerdì fuori della Moschea principale e ad altri riti compreso il taglio della mano per i ladri.
Me ne avevano parlato ma vedere
dal vivo questa macabra usanza mi riportò storicamente indietro nel tempo, alle
pratiche medievali diffuse anche dalle nostre parti.
L'Arabia Saudita applicava (credo
tutt’oggi) in maniera rigorosa la legge islamica che prevedeva la pena di morte
per reati come l'omicidio, lo stupro, l’adulterio, il traffico di droga ed
imponeva il taglio delle mani per il reato di furto. Il tutto da eseguire sulla
pubblica piazza nel giorno sacro musulmano:
il venerdì.
Ricordo il divieto assoluto di
guardare le donne con i visi totalmente nascosti e l’obbligo di camminare tra la gente con il
capo chino senza fissare alcuna persona così come l’usanza imponeva ai
ragazzini. Rispetto e sottomissione ai grandi.
Delle “cose buone” durante la permanenza a Jedda è rimasto nella mia memoria
il via vai dei pellegrini per e da La Mecca, la città santa, in quei tempi
assolutamente vietata ai non musulmani. Fu il califfo Othman bin Affan a dichiarare il porto di Jedda, unico porto ufficiale per l’accesso dei pellegrini
provenienti via mare da tutto il mondo e diretti alle città sante.
I wahhabiti, i sauditi di allora, credevano che tutti coloro che non
praticassero l'Islam, secondo le modalità interpretate in una visione
estremistica, fossero considerati infedeli.
Il Wahabismo era la religione di Stato e dare alle parole
del Corano e del Profeta Maometto le interpretazioni piu' svariate con le conseguenze piu'
disparate, rappresentava una tradizionalità ben radicata. Come quella di
credere che tutti coloro che non praticavano l'Islam, secondo le modalità
indicate, fossero infedeli. Una visione
estremistica in un mondo di vita radicale.
Dopo quattro giorni lasciammo
Jedda per fare ritorno a Genova effettuando lo stesso percorso dell’andata con
una variante: il mare decisamente diverso, molto agitato e affrontarlo con la
nave scarica fu “un’impresa”.
Navigammo nell’Oceano Indiano il più possibile sotto costa (Somalia, Mozambico e Sud Africa) nella speranza quotidiana che il Capo di Buona Speranza ci portasse “la calma”.
Non fu così. Trovammo l’Oceano Atlantico
agitato più che mai.
La vita a bordo, cadenzata dal rollio e dai sibili dei venti di burrasca, trascorreva come sempre in un equilibrio molto precario con “sbandate” improvvise. Mangiare seduti a tavola era impossibile. L’unico “rifugio” ambito si rivelò essere la “cuccetta”.
Ogni tanto il primo ufficiale mi
chiamava in plancia per osservare di giorno i profili in lontananza delle coste
africane (quella è l’Angola, la Liberia, il Gambia) e di notte il colore delle
onde minacciose, il buio di fronte e capire i sistemi di navigazione di allora
nell’oscurità.
Le colonne d’Ercole riportarono la calma. La nave ricominciò a fendere l’acqua non più minacciosa mentre stormi di uccelli si lasciavano trasportare appollaiati sui bighi.
Genova mi accolse di prima sera.
Ce n’erano di “cose scritte nei miei appunti da raccontare”. E così è stato.
Urano Cupisti
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