La prima volta a New York, con mio padre.
La prima volta a New
York, con mio padre.
Un viaggio che è rimasto nella mia memoria come scoperta ins
Sapevo che la permanenza nella Grande Mela sarebbe stata breve, solo
due giorni e che, per raggiungerla e ritornare, avrei impiegato ben trenta
giorni.
Era previsto di seguire una rotta più lunga del solito per rendere ancor
più piacevole la traversata ad un gran numero di persone che sarebbero state,
inconsapevolmente, mie compagne di viaggio.
Per loro la nave non doveva essere un semplice mezzo di trasporto ma
coniugare le necessità del trasferimento in America con quella che poteva
essere interpretata come una gradevole crociera.
Correva l’anno 1967 ed ancora si optava, per raggiungere il
continente americano, per il più sicuro transatlantico in alternativa alle
nascenti trasvolate ritenute ancora
troppo pericolose.
La nave della Società di
Navigazione Lloyd Triestino si chiamava Antoniotto
Usodimare (nome di un navigatore genovese del 1400) ed era alle sue ultime
avventure transoceaniche. Di lì a poco fu messa in disarmo e seppi poi che fu
demolita nel porto di Ortona in Abruzzo.
Una nave che mio padre, imbarcato
come Direttore di Macchina, definì “filante” per la sua sagoma affusolata
e tendente a fendere le onde con minor impatto. Dotata di un solo mastodontico
motore diesel e di conseguenza una sola elica. Il tutto per spingere una massa
di circa 9.000 tn di stazza lorda ad
una velocità, a pieno carico, di 16 nodi. Pieno
carico di cosa?
Merci varie e circa 700
passeggeri alloggiati in cabine divise in due classi, la 1° e la 3° (non c’era
la seconda). Insomma una nave definita “mista”,
passeggeri e merci.
Oggi si direbbe anche nave “low cost” per i bassi prezzi praticati
per la traversata.
Locali con arredamenti spartani,
servizi in comune per i circa 600 passeggeri di terza classe. Anche la cucina
di bordo diversificata. Gli ufficiali (compreso il sottoscritto) utilizzavano
le sale destinate agli 89 passeggeri più danarosi che occupavano le cabine sul
ponte alto di 1° classe.
L’avventura iniziò già nel porto
mercantile di Trieste alla partenza.
Zona portuale dove il vociare delle persone era diverso. Sentii dal “vero”, per
la prima volta, la lingua slovena
mista al dialetto “giuliano”. Trieste
terra di confine.
Da subito impegnato ad osservare
il via vai dei taxi (utilizzati dai passeggeri più facoltosi), il lavoro dei
marinai di bordo impegnati nel compito di facchinaggio, all’arrivo a
ripetizione degli autobus da quello che era il terminal di centro città, che
portavano ai piedi della scala d’imbarco, i passeggeri di terza classe.
All’imbrunire l’Antoniotto
Usodimare, agli ordini del “pilota del porto” era pronto al “mollare gli
ormeggi”.
Mio padre comunicò in plancia
l’OK della sala macchine e il transatlantico,
trainato da due potenti rimorchiatori, si allontanò lentamente dalla
banchina dirigendosi all’imboccatura del porto. Qui l’ultimo saluto del
“pilota”, la riconsegna della nave al legittimo “comandante” e via seguendo la
rotta tracciata puntando in mare aperto direzione S. Maria di Leuca.
Durante la navigazione nel Mar
Adriatico fu un continuo incontrare traghetti che facevano la spola tra i vari
porti italiani e quelli della allora Jugoslavia.
La rotta tracciata fino ad
arrivare allo Stretto di Gibilterra fu una rotta più da nave da crociera che da
carico. La ricerca dei tratti di mare più calmi possibili e prolungamenti per
poter osservare isole e coste da cartolina.
Dopo il doppiaggio del capo di S.
Maria di Leuca, navigammo nel Mar Jonio
fino ad avvistare la costa calabra
presso Rocca del Capo. Poi il lento avvicinamento allo Stretto di Messina ed
una volta superato, sulla “dritta”, apparvero le sagome delle isole dell’arcipelago
delle Lipari.
Capo Teulada ci ricordò le terre
della Sardegna. Avvistammo in seguito, in lontananza, l’Isola di Maiorca, più da vicino l’isola di
Formentera per poi puntare su Capo de Gata Nijar (nei pressi di Malaga) ed
infine la punta sud dell’Europa, Punta
de Tarifa (Stretto di Gibilterra).
Furono giorni piacevolissimi con
una vita di bordo “mista”, tra giochi mondani preparati per i passeggeri e
“lavori” pesanti di controllo delle cinque stive, degli ormeggi dei 10 bighi. E
nel reparto “macchine” il lavoro frenetico ed assordante per assicurare il
perfetto funzionamento di pompe, elettrogeni, valvole, pressioni, celle
frigorifere. Insomma tutto quanto utile per rendere la traversata più piacevole,
interessante e divertente.
Lasciato lo stretto di
Gibilterra, se pur l’Oceano Atlantico fosse considerato “calmo”, di fatto
l’Antoniotto “rollava” come un pendolo e l’effetto si notò nella scarsa
partecipazione dei passeggeri ai giochi previsti e ai momenti “conviviali”.
Nemmeno il fischio della nave che
annunciava l’avvistamento della prima isola dell’Arcipelago delle Azzorre, l’Ilha de São
Miguel, riuscì nell’intento di far
accorrere i passeggeri per ammirare lo spettacolo.
Il comandante, per attenuare il
“dondolio dell’Antoniotto”, cercò di “appoggiarsi” il più possibile alle isole
zigzagando all’interno dell’arcipelago. I meno sensibili al movimento della
nave riuscirono ad ammirare la loro origine vulcanica, il loro aspetto
lussureggiante, montuoso e selvaggio.
Dal mio moleskine: “Isole di una bellezza unica rese ancor più
affascinanti dalla presenza in mare di numerosi delfini che fecero la gioia dei
pochi resistenti al “mal di mare””.
Il Monte Pico con i suoi 2351
metri fu l’ultimo a salutarci prima di riprendere
l’alto mare ancora accompagnato dal dondolio delle onde.
In navigazione avvistammo alcune
balene che si stavano dirigendo verso nord. È sempre una grande emozione
l’avvistamento di questi cetacei, con gli sbruffi ad indicarne l’emersione.
Viaggiavano per la loro rotta a ritmo di danza.
I giorni a bordo trascorrevano
con le poche, scarse attività coinvolgenti. La sera, all’ora di cena, facevamo
la “conta vera” dei superstiti, di coloro che nel frattempo si erano abituati alla danza del mare e quelli ancora
sdraiati nelle cuccette.
Infine il rapporto dell’ufficiale
medico, un vero e proprio bollettino di guerra
e la “contentezza” dell’ufficiale “cambusiere”, con quel risolino sotto
i baffi folti, che celavano uno “spudorato appagamento ” per l’evidente risparmio
di cibo.
Terra! Terra! Terra! Annunciò il Primo ufficiale dal ponte di
comando. La costa americana in lontananza, la baia di New York pronta ad
accoglierci.
Giunti in acque calme, terminato
il dondolio, tutti affacciati sui ponti ad ammirare la baia. L’arrivo della
pilotina con il Pilota del Porto, il
Ponte di Verrazzano (da pochi anni terminato) sopra di noi con l’infinita
arcata (complessivamente lungo più di 4 chilometri) che collega la penisola di Brooklin con Staten Island (New Jersey), la Statua della Libertà e l’approdo al
terminal passeggeri (un po’ squallido a dire il vero) di Brooklin. Il lento scendere
di tutti gli ospiti e dei bagagli .
Terminata l’operazione di sbarco,
tolti nuovamente gli ormeggi , l’Antoniotto Usodimare trainato da due rimorchiatori,
fu trascinato verso il porto di Newark,
nel New Jersey, per le operazioni di scarico merci e carico per quelle
destinate all’Italia. E finalmente misi
piede sul suolo americano.
Il tempo a disposizione non era
molto. Doveroso fare delle scelte.
Primo giorno subito al Museo di Storia Naturale ad ammirare, tra
l’altro, lo scheletro del dinosauro e
passeggiata nel Central Park degustando i mitici Hot Dog bevendo Pepsi Cola
con ghiaccio e di prima sera a spasso in Little
Italy, nella via principale Mulberry Street a fare shopping e cenare in uno dei ristoranti italiani (il richiamo della
foresta: che delusione!).
Secondo giorno visita con battello alla Statua della Libertà per poi ritornare a Manhattan osservando la costruzione, in
stato avanzato, del World Trade Center
con le Torri gemelle, percorrere la Fifth
Avenue, quella lussuosa, con i negozi più famosi come quello al n. 727, gioielleria Tiffany, l’ascesa all’Empire State Building, il
grattacielo in stile art déco simbolo di New York, uno sguardo al Rockefeller Center e via a fare foto
al Ponte di Brooklin passando di
fronte al Palazzo di Vetro delle Nazioni
Unite. Tutto di fretta perché l’Antoniotto, nuovamente “riportato” al
terminal passeggeri di BrooKlin, già con oltre cinquecento persone a bordo, era
pronto per salpare.
Due parole sull’Empire State
Building. Me lo aspettavo così.
L’impatto visivo, dal basso verso l’alto lo resero ai miei occhi “strabiliante”
con la sua imponenza (443 metri di altezza per 103 piani). Allo stesso tempo
“scontato”, per quella funzione di “macchina per far soldi”, con l’affollamento
da stadio per salire alla terrazza panoramica posta all’ottantaseiesimo piano e
la visita obbligata allo shop per l’acquisto dell’immancabile souvenir.
Mentre di giorno a bordo c’erano
sempre motivi di incontri con i passeggeri,
con gli ufficiali, con gli avvistamenti, le serate furono dedicate, con
mio padre, a mettere ordine ai ricordi appena vissuti, alle annotazioni sul
moleskine ed a chiedermi le impressioni sulla
mia prima volta nella Grande Mela.
Ne scaturì tanta confusione e la
“necessità” di tornarci per capire la società newyorkese, gli stili di vita,
visitare il quartiere afroamericano di Harlem rinomato per gli storici locali
di soul food, di jazz, magari assistendo ad una messa Gospel o quello meno
tranquillo del Bronx (comunque da visitare se non fosse altro per una foto di
fronte allo Yankee Stadium). E ritornare
di fronte all’Empire State Building, ammirarlo dal basso verso l’alto e domandarmi:”
ma come hanno fatto a costruirlo negli anni ’30 in appena due anni?”
Ero stato a New York ma potevo
affermare di non aver capito New York.
Un mese tra andata e ritorno trascorso quasi tutto in mare e della Grande Mela,
alla fine, mi rimasero i Long playing
acquistati in un Drugstore, le aspirine prese in un Grocery, le caramelle Life
Savers (quelle con il buco), le chewingum wrigley’s spearmint, il caffè
istantaneo Sanka, le cioccolate Hershey’s e diverse qualità di sigarette
introvabili e allora sconosciute in Italia (Lucky Strike, Winston, L&M,
Viceroy’s e le mitiche “ovali” al mentolo Salem).
Insieme a tutto questo il ricordo
indelebile dell’unico momento “americano” vissuto a Central Park degustando
l’Hot Dog con la senape che colava tra le dita.
Urano Cupisti
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