Amazzonia Peruviana

 



Quella volta nell’Amazzonia peruviana.

 

La giungla amazzonica, là dove il grande fiume diviene navigabile, in misura sorprendente, ti prende, affascina e ti trasforma in esploratore alla ricerca di un mondo in parte ignoto negli anni ottanta quanto  inverosimile, palcoscenico da film d’avventura estrema con tanto di alligatori e piranha.

Visto il Perù classico con gli scenari unici di Machu Picchu, spinto dal desiderio di fuggire dalla folla chiassosa turistica, contrariamente a quanto previsto, sconvolgendo i miei stessi piani organizzativi, rimandai la parte misteriosa legata ai segni di Nazca, alla città coloniale di Arequipa e alle altitudini andine segnate dal Lago Titicaca ad un altro momento. Abbandonai i sentieri che i peruviani chiamano  “Gringo trail” (l’insieme dei percorsi turistici frequentati dagli stranieri) e puntai a Nord-Est.

Sei ragazzi spagnoli di Toledo, conosciuti una sera a Lima, mi convinsero ad aggregarmi a loro per la grande avventura nel Nord peruviano, raggiungere il quarto parallelo, vivere dieci giorni nella foresta pluviale e raggiungere Leticia là dove Colombia, Perù e Brasile s’incontrano. E fu così.

Partimmo con un vecchio DC6 della compagnia  Faucett Perù alla volta di Leticia (Colombia) con scalo tecnico ad Iquitos (Perù). Era nostra intenzione percorrere il Rio delle Amazzoni controcorrente o come si usa dire in gergo fluviale, risalire il fiume. Non verso la sorgente ma bensì al punto dove diviene navigabile: Iquitos.

Il volo? Avventura nell’avventura. Roba da “capitani coraggiosi”. Sedili semisfondati, tendine colorate ai finestrini e scritte da tutte le parti “Fuerza Aerea del Purù” a ricordare che era un veivolo dismesso dalle Forze Armate. A bordo una cinquantina di persone quasi tutte dirette a Iquitos.

 Superata la cordigliera delle Ande innevate ecco l’inizio della grande foresta amazzonica. Solo a scrivere nel moleskine la parola “foresta amazzonica” fui percorso dal pensiero di una grande avventura che in quei giorni avrei vissuto. Immagini di immensi territori colorati di un verde cupo dove i meandri fangosi del fiume segnavano le radici della foresta pluviale. Noi “esploratori” pronti a svelare i misteri custoditi.

Arrivammo a Leticia che era il tramonto a causa “del solito intoppo tecnico a Iquitos”. Del resto in America Latina sai sempre quando parti, mai quando arrivi.



Leticia, la puerta de entrada a la Amazonía colombiana. Questo il bienvenidos all’aeroporto.

Un terminal-bus colorato, con tanto di bandierine colombiane, senza vetri ai finestrini, con le panche al posto dei sedili, ci portò nel centro di questa strana città, dall’aspetto molto turistico dove il desiderio di fuggire ti assale da subito.



Prendemmo alloggio in una specie di ostello, con letti a castello e bagni in comune. La permanenza prevista: due giorni per visitare La Isla de los monos (isola delle scimmie) e Puerto Nariño con i delfini rosa e la pesca dei pirañas. Vuoi non raccontare queste due avventure turisticamente confezionate? Anche perché avventurarsi da soli, a quel tempo, era proibito e francamente impensabile.

Il nostro fine era l’avventura fluviale con un battello da carico da prendere nella vicina Santa Rosa de Yavari (Perù) d fronte a Leticia (Colombia) e Tabatinga (Brasile), vedere le tribù degli Yanesha e Marunahua.



Fatta incetta di acqua, subito a bordo della Madre de Dios per scegliere l’amaca “più bellina” dove dormire nei tre giorni di navigazione. I nostri compagni di viaggio?

Mucche, maiali e galline con tanto di gallo per la sveglia mattutina. Una sala per mangiare vicina al ponte di comando, i bagni in comune con una sola doccia dall'aspetto orribile con un tubo nel soffitto a getto che pescava l’acqua fangosa dal fiume, senza porta con un telo da abbassare per la privacy. In compenso la spesa per i tre giorni, pasti compresi, si aggirò intorno ai $ 20,00.



Eravamo gli unici stranieri dell'intera nave, il resto tutti peruviani. E il menù?

A colazione una tazza di farina d'avena con zucchero e acqua, un pezzo di pane bianco e frutta. A pagamento una tazza di caffè istantaneo o, in alternativa, tè. Il pranzo consisteva in riso con legumi e un pezzo di pollo. La cena una zuppa di verdure, pane bianco e frutta. Da bere? Coca Cola o birra peruviana a pagamento. La pulizia a bordo?

Fantastica. Un vero comportamento green, da invidiare. Dappertutto cestini rifiuti di tre colori, che venivano svuotati spesso. Nel 1981, a bordo di un barcone piatto nella sperduta foresta tropicale peruviana già era predisposta una specie di raccolta differenziata. Cestini bianchi per la carta, cestini azzurri per la plastica, cestini marroni per tutto il resto. Il tutto finiva in vecchi bidoni della Castrol. Pensavamo che questi, una volta arrivati ad Iquitos, finissero in discarica. Ahimé, non proprio così. Nel bel mezzo della notte tutto finiva nel fiume. Fantastico!

E i componenti l’equipaggio avevano alloggi separati? Bagni propri? Certamente.

Dormivano su stuoie a prua insieme agli animali utilizzando il proprio e unico bagno a poppa. Bagno? Una tavola pensile sporgente seminascosta da un telo di plastica verde che “assicurava la privacy” e permetteva di urinare e defecare direttamente nel fiume.




Il tragitto Leticia – Iquitos alcuni battelli veloci lo compivano in 7/8 ore. Noi con  la Madre de Dios ci impiegammo 3 giorni perché erano previste tappe nei più importanti villaggi, piccole cittadine, lungo le due rive del Rio, per caricare e scaricare merci e persone. E questo ci permise, nelle ore di permanenza in questi villaggi, di conoscere da vicino alcuni aspetti del mondo amazzonico.



Delle tribù Yanesha e Marunahua neanche l’ombra. A dire la verità, insieme ai miei compagni di viaggio, cademmo “nella trappola” tesa dal comandante (si fa per dire) del battello che ci prospettò una “escursione” in un villaggio Yanesha a due ore di cammino nella foresta muniti di “macete”. Figlio di marinaio con l’esperienza nel rilevare la posizione osservando il sole, mi accorsi che il “comandante” non faceva altro che ripetere continuamente, avanti-indietro, il solito tratto di circa 200 metri per poi arrivare al “villaggio”. La faccio breve: gli Yanesha altro non erano che i componenti della Madre de Dios con parrucche, segni sulle facce, perizomi squallidi. Uno si era dimenticato di togliersi l’orologio. Non mancò nulla; anche lo sciamano con l’oroscopo del giorno scritto in lingua quechua.

Inutile dire che tutti stemmo al gioco, danzando, mangiando pollo e bevendo coca-cola fresca presa da un frigorifero nascosto in una capanna. Scoprimmo che il villaggio era adiacente ad una strada che conduceva al porto (150 metri di distanza).

Cosa ci dicemmo? “Tutto quanto fa spettacolo”. E dire che la messa in scena, lo spettacolino, ci costò $ 30 a testa.

Forse era meglio  tornare a toccare da vicino la vita vera, quella di tutti i giorni.

Caballococha è una cittadina (al momento della visita contava 3.500 abitanti) interessante per lo scenario della giungla che predomina nell'area circostante. Il porto e il traffico fluviale unica via di comunicazione con il resto del mondo. L’elettricità assicurata da generatori diesel che alla sera venivano spenti. Nelle poche ore di permanenza riuscimmo a cogliere la presenza di culture legate ad etnie diverse.

San Pablo de Loreto è un villaggio di circa 1.000 anime ricordato sulle mappe per la presenza di un lebbrosario. Sceso a terra mi colpì un grande manifesto raffigurante il “Che”. Mi raccontarono che il “comandante”, insieme all’amico Alberto Granado, aveva alloggiato negli anni cinquanta da quelle parti.

Pebas. Fummo pregati di non scendere per evitare spiacevoli incontri. Anche la policia local evita di lasciare la piccola stazione di “controllo”.

Indiana  fu l’ultima cittadina prima di arrivare ad Iquitos. Già si respirava un’altra aria, meno fascinosa. La trovammo poco ospitale, chiassosa.  Era saltata improvvisamente quella connessione con la Natura, con le diverse etnie. Erano venute meno le emozioni, il “richiamo della foresta”. Avvertivamo la delusione di Iquitos?

Non fu proprio una delusione. Imparammo a sopportarla per quei suoi aspetti contrastanti;  povertà e ricchezza, quartieri off limits e barrios eleganti con tanto di security ad ogni abitazione.

Alla fine la città offrì numerosi luoghi degni di nota. Le architetture coloniali, imperiosi e allo stesso tempo  decadenti ,risalenti all’epoca d’oro del caucciù; i mercatini artigianali di Malecon; il Barrio de Belén con il Pasaje Paquito e la cucina della foresta, unica quanto bizzarra.

Il Barrio de Belén si trova a 10 minuti di moto-taxi dal centro. Rappresenta il quartiere più pittoresco e magico di Iquitos con il suo enorme mercato, cuore pulsante della città.



Ai margini del mercato tonnellate di immondizia mai raccolta ed una situazione sanitaria sempre preoccupante. Scene che difficilmente dimentichi: cani randagi che, nell’immondizia, trovano il proprio cibo, in compagnia di “flotte” di topi e numerosi “gallinazos” (parenti degli avvoltoi). A completare il tragico quadro milioni di mosche e zanzare.



-Señor asustado? (signore spaventato?-) mi chiese un venditore di frutta. Encantado risposi, aggiungendo resignado (rassegnato).

I venditori urlavano, i clienti contrattavano, tutti cercavano l’affare. Il mercato di Barrio de Belén  Un enorme labirinto dai mille vicoli pieni di banchi e negozi informali brulicanti di gente. La sensazione all’entrare è stata quella di essere risucchiati da un’aspirapolvere e trasportati in qualche epoca passata (citazione turistica letta su di un depliant).

 L’odore e la sporcizia incrementarono con il passare delle ore e l’aumentare della temperatura ci fece fuggire; unica via di salvezza.



Pasaje Paquito  che visitammo con attenzione per essere il vicolo più famoso nel mercato. Qui, tra i banchi, si possono trovare tutte le erbe medicinali usate dai “curanderos” (una via di mezzo tra sciamano, stregone, curatore) per sanare ogni tipo di malessere, decine di “tragos” (liquori afrodisiaci), pomate di ogni tipo,  incensi naturali e polveri dai magici effetti psicotropi (allucinanti).

Ed infine la vera cucina della foresta amazzonica: carni di animali come la “sachavaca”,  un tapiro gigante, il “sajino” ovvero un cinghialetto selvatico, armadilli, tartarughe, coccodrilli e scimmie. Fra l’immensa varietà di pesci di fiume è il “Paiche”, ovvero il pesce più grande del Rio delle Amazzoni, quello maggiormente cucinato. Questo gigante dei fiumi può raggiungere una lunghezza di 2.5 metri ed un peso di 300kg.



Rientrato a Lima, salutati i compagni d’avventura, pronto a completare la conoscenza di un paese incredibile, enigmatico, con una spedizione verso Sud, Sud-Est.

Aver scelto e data la priorità alla mitica giungla amazzonica, considerata uno dei luoghi più inaccessibili del pianeta, cosa mi aveva lasciato dentro?

Definita  il polmone verde del Mondo con il cuore in Brasile ma con le radici che affondano in parte in Bolivia, Ecuador, Colombia e, soprattutto, in Perù, tra le popolazioni perdute che custodiscono ancora “misteri”, una bellezza e biodiversità senza pari e vivere  un’esperienza “reale” che ha permesso di entrare in connessione con gli abitanti del grande fiume, conoscere i loro usi. Non è da poco.

Urano Cupisti





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