A spasso per le Ande peruviane
Perù Andino
Oggi è sicuramente l’itinerario
turistico più battuto del Perù insieme a Cuzco e Machu Picchu. Nel 1981 aveva
ancora un magico aspetto avventuroso. Arequipa, Puno, il Lago Titicaca, il
Passo della Raja e poi scendere fino a Cuzco per rientrare a Lima.
Preparare il viaggio, sapendo di
affrontare una delle incognite legate all’altitudine, non fu semplice. Bastò accertarsi
di essere in perfetta salute e sicuro di poter vivere per diversi giorni
mediamente intorno ai quattromila metri di altezza.
Oggi raggiungere Puno, per
risparmiare tempo, si vola da Lima a Juliaca (3824 m.s.l.m.) ed inevitabilmente,
all’arrivo, molti crollano ed hanno bisogno minimo di un giorno se non due per
acclimatarsi. Spesso accade che un certo numero di turisti, non bene informati,
debbano rientrare subito a Lima e rinunciare al viaggio.
Scelsi un itinerario diverso includendo Arequipa, la ciudad colonial blanca, raggiunta in aereo da Lima. Otto giorni dedicati alla città, alle sue strade, palazzi, chiese ed ai meravigliosi dintorni caratterizzati da fertili vallate, profondi canyon con i condor, i vulcani con le vette coronate da nevi perenni. Motivo della scelta? Vivere una città ancora intatta nel suo essere coloniale ma anche acclimatarmi ai suoi 2380 metri di altezza e prepararmi ai futuri 4000.
Posta a 1000 km a sud di Lima,
più o meno a circa 300 km dall’Oceano Pacifico e altrettanti dal confine con il
Cile. Si trova su di un altipiano, in una zona vulcanica dominata dall’ Ampato, che supera abbondantemente i seimila,
dal Chanchani e dal El Misti, il più fotogenico ed
imponente che ricopre il ruolo di padre protettore della città. Mi cimentai il
quarto giorno nell’ascesa facilissima dei Vulcani
Gemelli dalla cui sommità esclamai a gran voce: mi illumino d’immenso.
La città con i suoi edifici costruiti con la pietra “sillar”, una pietra vulcanica di color
bianco, sprigiona la forte eredità della cultura spagnola: Plaza de Armas, sicuramente la più
bella vista in Perù, la sua cattedrale,
imponente nel suo stile, la Chiesa della
Compagnia di Gesù, la piazza
Yanahuara, un po’ defilata ma unica per il suo belvedere, la Casa de Moral che deve il suo nome ad
un vecchio albero di mora che cresce all’interno del cortile ed infine il
complesso del Convento di Santa Catalina
(Santa Caterina da Siena) che, nel 1981, ospitava una ventina di suore di clausura. Nel complesso
diverse case, collegate da strade strette circondate di pareti bianche, rosse e
blu che danno l’impressione di camminare nel cuore di un’antica città spagnola:
una città nella città.
Cosa ricordo maggiormente della
“scoperta” di Arequipa e dintorni?
La valle de cebollas, aver ammirato il Condor ed aver provato
l’ebrezza di una “peluqueria” ovvero
il taglio dei capelli da un hombre
peluquero.
La valle de Cebollas. Niente di particolare se non per l’estensione
di coltivazioni unicamente di cipolle e “controvento” immaginabile l’essere
investito dall’odore pungente tanto da coprirsi con un fazzoletto il naso e la
bocca, come bandito pronto per l’assalto
di una banca. Inutile arieggiare i vestiti in seguito. Ci vollero giorni per
riuscire nell’intento.
Il canyon del Condor o meglio il Canyon del Cotahuasi che mi offrì
l’opportunità di ammirare questo maestoso volatile e compiere la mia prima
esperienza di viaggiatore raggiungendo i 4500 metri di un passo con un bus. Tre
degli otto giorni li destinai a questa
escursione. Un giorno per raggiungerlo. 10 ore di viaggio per compiere 370 km
su strade sterrate, nelle gole del canyon, raggiungere il passo e poi scendere fino al villaggio di Cotahuasi con incontri
faunistici prettamente “andini”: vigogne, lama, alpaca e fenicotteri.
Una simbiosi unica tra uomo e
territorio, asperità del terreno e la difficile accessibilità, assoluta assenza
di turismo. Qualche viaggiatore guardato come un alieno. Una unica
“pensioncina”, una specie di affittacamere per gli indios che spostavano gli
animali nei diversi pascoli. Cibo a base
di quinoa, menta, kiwicha, e mais rosso.
Raggiunsi la mia postazione di
avvistamento all’alba e il condor non tardò a conquistare la scena. Quando plana attraverso le montagne ed i
dirupi del canyon è uno spettacolo che affascina. Al mattino ha fame e
dall’alto caccia la sua preda senza tanta fatica.
Il taglio dei capelli.
Ultimo giorno ad Arequipa, barba lunga e capelli (allora ne avevo ancora in
abbondanza) bisognosi di un taglio. Dietro consiglio del proprietario della “posada”
mi recai da “Miguel le figaro”. Già
il nome alla francese mi insospettì circa la cuenta che alla fine mi toccò
sborsare.
Ambiente molto peruviano,
poltrona molto logora, specchio con la sola parte centrale ancora adatta al suo
scopo e lui, le figaro andino pronto con pettine in parte sdentato e forbici
semi arrugginite. Insomma un insieme di elementi che mi portarono, se avessi
potuto, a pensare di ”scappare”.
Mi feci coraggio: chiesi barba e
una spuntatina ai capelli. Risultato? Rimasi su quella sedia per tre ore. Bagno
caldo per ammorbidire la barba, rasatura pelo su pelo, creme definite idratanti
e lozioni dopo barba dai profumi nauseanti e poi il taglio. Fiale presentate
come ricostituenti, olii rigeneratori del bulbo capillifero (per me accelerarono
la calvizia già in atto) e taglio come tosatura di un alpaca. Alla fine mi
sembrò di essere ritornato militare. E il conto? Me la cavai con 20 dollari
(una fortuna!) dopo un’estenuante lotta al ribasso. E per finire mi incartò i
capelli come souvenir!
All’ottavo giorno, verso le 19, mi ritrovai alla stazione ferroviaria in partenza alla volta di Puno. La mia tattica; raggiungere il Lago Titicaca in treno salendo i circa duemila metri di differenza con un viaggio di ben 12 ore. Scopo riuscire nell’intento di assuefarmi alle altitudini senza alcun problema. Non fu proprio così.
Al mattino, all’arrivo a Puno,
percepii immediatamente la rarefazione dell’aria. Notai che i “locali” si
muovevano con una lentezza accentuata. Tutto sembrò diminuito, attenuato. Mi
sentii partecipe di un film al rallentatore.
Arrivato alla Posada Italia (strana coincidenza), il proprietario mi
accolse con un “infuso di benvenuto”. Il “mate
de coca” che, secondo le loro usanze, oltre ad essere il segnale di
benvenuto sul Lago Titicaca avrebbe la funzione di mitigare il mal
d’altitudine. Riuscì quell’infuso nell’intento?
Neanche per sogno. Nel mio caso
ci vollero circa 8 ore, disteso nel letto, ad occhi chiusi prima di poter
lentamente organizzarmi: Bienvenidos a
Puno, la capital del lago Titicaca.
Me duele la cerveza, gridai ripetutamente alla cameriera che con
insistenza mi avvisava che era pronto il pranzo. Cerveza al posto di cabeza e
mi ritrovai in camera tre bottiglie di birra gelata. Cose che capitano a
viaggiare il mondo.
I giorni seguenti furono
incredibili. A seguire oggi i reportage dal Lago Titicaca ho capito quanto
fortunato fui nel 1981 a trovarmi da quelle parti. Turismo selezionato e mordi
e fuggi, una foto e via, vuoi per la situazione ambientale ostile, vuoi per la
mancanza di attrezzature ricettive con quel minimo di servizi che il “turista”
chiede. Nel 1981 erano ancora terre esclusive per viaggiatori, che si adattano
a tutti gli ambienti rispettosi degli usi e costumi delle popolazioni.
Penso di essere stato uno degli
ultimi a visitare le isole galleggianti ancora abitate veramente dagli Uros che non chiedevano ancora dollari per
essere fotografati, navigare sul Lago con le imbarcazioni di totora, visitare
in solitaria l’imponente complesso archeologico di Sillustani, considerato una
delle necropoli più importanti al mondo, visitare Chucuito, villaggio fuori
Puno, dove si trova un suggestivo tempio della fertilità. Essere stato a contatto con parte della fauna
lacustre più rappresentativa costituita da uccelli come keñola, anatre
selvatiche e fenicotteri ed infine osservare da vicino la decantata Rana gigante del Titicaca.
Una rana del tutto speciale,
oggetto di studi continui. Basti pensare che è la rana acquatica più grande al
mondo, può pesare anche un chilo ed è in grado di respirare sott’acqua senza
aver bisogno di risalire in superficie.
Cacciata dagli Uros costituisce
una prelibatezza della cucina andina e tutta la popolazione locale ritiene che
la sua carne, assieme ad altri ingredienti, sia in grado di curare diverse
malattie.
La leggenda narra che tutto ha
avuto inizio a Puno, che il suo lago ha visto sorgere Manco Cápac e Mama Ocllo, i fondatori della dinastia Inca. Questa
“filastrocca” l’ho sentita raccontare in ripetizione soprattutto nelle due
serate trascorse nelle isole che si trovano nel centro del Lago: Amantanì e Taquile.
Cosa mi è restato di questa particolare esperienza?
Gli incredibili paesaggi naturali,
le vestigia degli Inca. Ma di più ho portato con me i sorrisi e la calda
accoglienza degli abitanti, l’allegria delle loro feste, delle danze e dei
rituali propiziatori e come ho letto da qualche parte al mio ritorno “a Puno, le tradizioni si vestono a festa
tutti i giorni e rendono speciale ogni celebrazione”.
Il treno Puno – Cuzco partì in
orario alle 8 del mattino. Mi attendevano 10 ore di viaggio costeggiando le
montagne e percorrendo vallate a volte brulle, a volte verdeggianti, in un continuo
saliscendi che mi portò a toccare i 4.470 metri di altezza del Paso La Raja, la
mia seconda “cima coppi” dell’intero viaggio. Alla partenza non riuscivo a
capacitarmi dei tempi di percorrenza visto che “ufficialmente” erano previste
solo due fermate: Juliaca e La Raja. Fu proprio la periferia di Juliaca a farmi
capire il perché.
Il treno iniziò a rallentare, a
passo d’uomo. Stavamo transitando tra le vie della città, senza alcuna
protezione lungo la strada ferrata. Anzi, una miriade di banchetti con merci
molto colorate e venditori pronti a salire sulle vetture a vendere panini,
frutta, bibite (con presente l’onnipresente Coca Cola), sigarette, dolciumi,
stoffe, sciarpe, cappelli ed altre mercanzie.
Non solo a Juliaca. iI treno
continuò, nel suo lungo tragitto, ad attraversare l'altipiano con la presenza
di piccoli centri abitati e piccole fattorie sperdute nel nulla con le bancarelle
a ridosso della ferrovia ed il treno che ci passò in mezzo.
Dopo lo stop di circa 15 minuti a
La Raja ed aver atteso il treno che percorreva lo stesso tratto al contrario,
via verso le fertili valli dove, dopo tanti giorni trascorsi in uno dei luoghi
più aridi del pianeta, finalmente cominciai a rivedere qualche torrente, fiume,
fiancheggiando terreni coltivati.
Il tramonto osservato dal
finestrino del treno mi annunciò l’imminente arrivo a Cuzco. L'arrivo a destinazione
fu puntuale, una veloce corsa in taxi mi portò all’aeroporto, giusto in tempo
per il rientro a Lima.
Non mi restava che organizzare
l’ultima parte del viaggio in Perù, la parte più misteriosa.
Urano Cupisti
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