Albania, quel viaggio del 1982 "fuori del tempo"

 


Albania

Quel viaggio del 1982 “fuori dal tempo”.

 

Viaggio impensabile, inimmaginabile, irrealistico, improvviso, inatteso e alla fine realizzato.

Viaggio impensabile

Nel 1982 l’Albania altro non era che un paese sconosciuto ai più. Nessuno ne parlava, come se fosse  inesistente. Nei libri di scuola le uniche tracce che riconducevano alla sua esistenza le trovavi nei libri di storia del secolo scorso, dal protettorato italiano dopo la prima guerra mondiale all’annessione vera e propria avvenuta nel 1939 e durata fino al 1944. Poi il silenzio assoluto.

Silenzio che è coinciso con cinquant’anni di regime marxista-leninista legato alla vita del suo “capo” indiscusso:  Henver Hoxha.



Frontiere chiuse e con queste aeroporti e porti, nessuna collaborazione o scambi culturali, nessuna possibilità di comunicazione telefonica se non permessa e controllata dal regime.

 

Viaggio inimmaginabile e irrealistico.

 

Poche notizie scritte, nessuna disponibilità di cartine stradali aggiornate se non “cimeli fascisti” datati 1940.

 Viaggio improvviso ed inatteso.

 Una domenica antimeridiana del mese di gennaio 1982, fredda ma assolata, me ne stavo seduto su una panchina della passeggiata a mare di Lido di Camaiore godendomi i raggi solari a pieno viso, con gli occhi semi chiusi, quando sentii una voce dimenticata chiamarmi. Lo guardai stentando a riconoscerlo. <<Non è possibile, sei Pasquale. Che ci fai da queste parti?>>

Un vecchio conoscente di università, calabrese, ufficialmente emigrato a Pisa per studiare (si fa per dire), ma attivista e in prima linea nel movimento studentesco. Rappresentava quelli allora definiti katanga, ovvero coloro addetti al servizio d’ordine durante scioperi e manifestazioni. Convinto marxista-leninista cercò allora di persuadermi (inutilmente) ad abbandonare i miei ideali liberali per confluire nell’utopistica visione del “sol dell’avvenir”. Dopo la mia laurea svanito nel nulla.

Eccolo di fronte a me a raccontarmi tutte le sue peripezie fino a ricoprire l’incarico di rappresentante per l’italia di un circolo culturale italo-albanese.

 Viaggio alla fine realizzato.

 Da lì a trovarmi dopo tre mesi sul molo di Bari ad imbarcarmi su di un traghetto iugoslavo con destinazione il porto di Bar, nel Montenegro, fu il susseguirsi di strane, singolari, insolite situazioni volute da entrambi. Il nuovo, ripetuto tentativo di Pasquale di portarmi ideologicamente dalla sua parte e il mio desiderio di vivere un’avventura unica nel suo genere, così come fu.

 Durante la traversata notturna la conoscenza dei “compagni” di avventura, in tutto quindici di cui sei donne. Tutti facenti parte del circolo culturale, vestiti in modo informale, niente jeans ne calzature sportive. L’abbigliamento femminile limitato a gonne abbondantemente sotto il ginocchio, niente scarpe con i tacchi ne calze di nylon. Del resto tutto questo era ben specificato nelle istruzioni comportamentali ricevute prima della partenza.

 Ad attenderci a Bar, al mattino, un bus slavo che aveva il compito di portarci fino alla cittadina di Vjeternik, sperduto punto di confine vicino al Kossovo, distante 300 Km circa. E da lì raggiungere Scutari con strade interne; altri 150 Km.

Per meglio capire la situazione di allora basta guardare una semplice cartina stradale per rendersi conto che il tragitto Bar-Scutari è oggi di appena 50 Km. Noi percorremmo in totale ben 450 Km impiegando 10 ore compreso lo stop obbligato di due ore alla frontiera. Così era l’Albania al tempo di Henver Hoscha.

 Giunti all’ultimo avamposto di frontiera slava, l’ufficiale in servizio ci chiese il motivo delle visita in Albània (l’accento grave d’obbligo per la giusta pronuncia). Dopo la risposta di Pasquale, con il sorriso sarcastico per niente nascosto, ci disse: “Auguri”. Non volle nemmeno i passaporti. “tanto ci pensano gli albanesi”.

 Ben 500 metri separavano i due avamposti. La terra di nessuno, sterrata con limitatori chiodati qua e là, fossati per impedire accelerazioni ai pochi mezzi in transito (in due ore non ne vedemmo alcuno), l’attraversammo a piedi trascinando i bagagli mentre una pioggerellina fastidiosa aumentava i disagi. Poi finalmente dietro l’ultima curva il Grande cartello sormontato da una gigantesca aquila nera, con due teste, su sfondo rosso ad annunciarci che entravamo nella Republika Shqipëria.

Ci aspettavano. Saluto con il pugno chiuso, thè caldo per tutti, musiche militari e inizio controllo bagagli. Per i passaporti facemmo molto presto: li requisirono e li ritrovammo il giorno della partenza con tutti i timbri applicati. Dovevamo ripassare da quella frontiera, l’unica aperta.

I 15 bagagli e borse, borsine a mano, furono rovesciati uno ad uno per un controllo che dire minuzioso è un eufemismo. Le sei donne “sparirono” per un controllo fatto dalle doganiere albanesi. Noi, alla militare, ovvero in mutande. Il tutto con il ripetere in italiano “scusateci, scusateci, scusateci”. Requisirono tutti i giornali, riviste, indumenti considerati borghesi riservando un trattamento particolare ai pacchi di cotone e assorbenti igienici; letteralmente sbriciolati pensando a chissà che di nascosto.

 Finalmente salimmo su di un Bus-Menarini nuovo di zecca da 44 posti. Insieme a noi, oltre l’autista, tre funzionari del Partito del Lavoro di cui due nella funzione di sorveglianti e uno, decisamente con grado più elevato, come presenza della polizia segreta Sigurimi. Tutti parlanti un perfetto italiano.



Il viaggio fino a Scutari fu allucinante.  Continuavamo ad incontrare “bunker” di cemento armato seminascosti nella vegetazione. Ci fu detto che erano difese del popolo contro improvvisi ed attesi tentativi di invasione dei “traditori titini” affiancati dagli imperialisti italiani ed americani, favoriti dalla politica espansionistica religiosa del Vaticano. Benvenuti in Albània.

 


Finalmente a Scutari. Arrivammo di sera. Una città deserta, poche luci accese.

<<Dopo cena se volete fare due passi è permesso>> ci disse l’agente Sigurimi.

<<E dove andiamo? Meglio stare in Hotel>>

 Rimanemmo a Scutari due notti. Visita della città e il giorno dopo  Kruja, decisamente più attraente vuoi per le sue vestigia romane.

 Scutari. Città trasformata nella visione di una società marxista-leninista. Solo mezzi pubblici, unica proprietà ammessa la bicicletta, cultura atea, trasformazione dei centri di culto (moschee, chiese cattoliche, bizantine, sinagoghe) vuoi in sedi del Partito del Lavoro, vuoi in Case del Popolo o ancor peggio in Palestre come la Cattedrale Cattolica. Altro non ci fu permesso vedere; niente Lago, niente Castello di Rozafa. Ritenuti superflui nella logica del viaggio dedito principalmente, meglio dire esclusivamente, agli incontri e scambi “culturali”.

 


Kruja. Ricordo questa cittadina visitata in una giornata di sole pieno primaverile. Risultò essere una visita consentita dal sapore “turistico” e “senso del viaggiatore” anche per essere stata la cittadina che dette  i natali all’unico eroe nazionale riconosciuto tale anche dal “regime: Giorgio Castriota Scanderbeg. Vissuto nel tardo medioevo fu il condottiero albanese che combattè “l’oppressore turco-ottomana”. E il Castello che sovrasta la cittadina che ospita il Museo Nazionale della Resistenza  (ai turchi) ha assunto il luogo della nostra attrazione turistica. Asgjë (niente) moschea, asgjë vecchio bazaar.

 Durazzo. L’Hotel Rex, sul lungomare, una struttura “fascista” della fine anni trenta, fu la nostra base operativa per le successive visite del centro-sud del paese. Della città di Durazzo è rimasto poco nella memoria. Si partiva al mattino presto e si tornava la sera tardi. Monumenti e musei solitamente sono  uno dei tanti motivi per cui si viaggia. Non nell’Albania al tempo di Henver Hoxha.

Inutili i tentativi di poter visitare il porto,  le rovine del  Foro Bizantino datato tra il 600 e l”800 d.C., la Fatih Mosque risalente al ‘500, l’anfiteatro romano, la Villa Reale, fatta costruire dal Re Zog I, che ha regnato in Albania dal 1928 al 1939,  uno dei pochi monumenti che testimoniano gli oltre dieci anni di governo monarchico nel paese. Quando proposi la visita della villa, mi fu chiesto: <<perché interessa visitare il palazzo di rappresentanza del Partito del Lavoro?>>. Chiesi scusa; avevo capito tutto.

 E venne il giorno di Borodin quando rischiai di rimanere in Albania come sovversivo diffondendo false notizie, inneggiando a valori dell’imperialismo americano.

Stavamo percorrendo il tratto stradale da Scutari a Durazzo, disseminato anch’esso di bunker a difesa degli attacchi via mare degli italiani. Nel Menarini-Bus il mangianastri diffondeva le solite marce militari cantate dalla gioventù albanese quando una musica soave, quasi impalpabile, una melodia dolce e aggraziata introdotta dai soprani accompagnati dall'oboe e dall'arpa mi svegliò dal torpore trionfalistico. Richiamai l’attenzione dei miei compagni gridando: << ragazzi, ma questa è la musica del musical americano Kismet (conosciuto in Italia come Uno straniero tra gli angeli) di Bob Wright cantata da Vic Damone>>.

L’agente del Sigurimi si alzò dal suo sedile e con fare minaccioso mi ricordò che <<quanto tu stai ascoltando altro non è che la prima Danza delle ragazze tratta da Danze Polovesiane dell’opera Il Principe Igor del compositore russo Alexander Borodin considerato dai compagni albanesi come un compositore genio pre-marxista attivista del movimento di massa nell’epoca delle riforme della metà dell’Ottocento. Gli americani hanno rubato e fatto loro questa melodia!>>. E le marce militari ricominciarono ad invadere il bus. Concitata discussione tra Pasquale e l’agente sul perché della mia presenza nel gruppo e manifesta, secondo il rappresentante del Sigurimi, posizione non consona ai dettami marxisti-leninisti richiesti. Evito di raccontare quanto fu detto tra il sottoscritto e Pasquale. Comunque scesi ai più miti consigli per evitare davvero conseguenze “incresciose”.

 


Elbasan. Una deviazione di molti chilometri solo per ammirare l’impianto metallurgico costruito grazie agli aiuti di stato cinesi. Ci fu ricordato che l’alleanza con i compagni di Mao aveva sostituito quella con i sovietici ritenuti “revisionisti e traditori”.

Obbligo ammirare all’ingresso dell’impianto il mega-pannello con le foto dei compagni-operai che avevano superato i target di lavoro loro assegnati. A seguire l’inevitabile incontro con una delegazione con tanto di fazzoletti rossi intorno al collo e successiva partecipazione al convivio collettivo nella mega-mensa. Noi al tavolo dei compagni-dirigenti al centro del locale su di un palco. Marce militari e “discorsi” di fratellanza. Ovvio che toccò a Pasquale ringraziarli per l’ospitalità.



Berat.  Lo dico e lo urlo a squarciagola: la visita alla cittadina “dalle mille finestre”, è valsa la pena dell’intero viaggio in Albania. Momento di scoperta  e di fascino  con le sue caratteristiche costruzioni fatte di muri bianchi e tegole color mattone. Mi domando ancora adesso come sia riuscita ad essere sopravvissuta alla dura politica di rinnovamento e ricostruzione del dittatore Enver Hoxha, il quale era solito distruggere tutti gli edifici antichi per poi ricostruirne di nuovi in stile regime. Forse commosso da tanta bellezza?

Affascinante e misteriosa con il suo antico insediamento illirico, che passò poi sotto la dominazione ottomana, bulgara, serba e turca. Evidenti le due diverse anime religiose, l’una prettamente cristiana e l’altra musulmana, l’emblema della pacifica commistione culturale mai sopita.

La Moschea degli Scapoli, l’ottomana Moschea del Re, la Moschea di Piombo, le piccole case tutte arroccate l’una sull’altra, che caratterizzano l’intera architettura della zona, la Chiesa di San Spiridione, la piccola Chiesa di San Tommaso ed infine IL CASTELLO DI BERAT

Una meravigliosa fortezza ottomana arroccata su di un’altura che domina la cittadina. Da qui abbiamo goduto della meravigliosa vista panoramica, che spazia tra i quartieri di Berat  arrivando in lontananza ai verdi e selvaggi dintorni che hanno rischiato di toglierci il fiato.

<<Come vedete il nostro compagno-comandante ha voluto lasciare ai posteri le tradizioni culturali dell’Albania solo ed unicamente come ricordi e testimonianze di supremazie, guerre e disparità>>.

I miei compagni credenti di viaggio annuirono mentre io “respiravo” finalmente storia, tradizioni, immerse in un paesaggio sorprendente.

Ed infine…


Argirocastro, la casa di Enver Hoxha


 Argirocastro. Un paesino incastonato tra le montagne del sud dell’Albania, splendido borgo storico che avrebbe avuto miglior attenzione da parte nostra se impegni “politico culturali” incombevano e ci impedirono la visita. Solo la casa-museo dove nacque LUI, la forza suprema del paese, Henver Hoxha, fu meta delle nostre attenzioni. E meno male che è posizionata in cima al paese da raggiungere a piedi attraversando il borgo  tutto fatto di vicoli stretti, casette tipiche dai tetti in pietra dal colore bianco-ellenico (La Grecia è solo a 40 Km in linea d’aria).



Niente casa ottomana Skenduli, niente bazaar cittadino e magari degustare un caffè turco . Niente visita al Castello, tabù anche perché utilizzato per la custodia dei prigionieri politici. Niente Moschea Bazaar che sapevamo utilizzata  come scuola di formazione per gli acrobati dei circhi, dato che l’altezza dei soffitti interni permetteva di appendervi comodamente i trapezi. Niente di tutto questo perché dovevamo rientrare a Durazzo , circa 200 km con un tempo stimato di 5 ore, per essere puntuali alla serata di gala con la presenza di alti funzionari del Partito del Lavoro provenienti appositamente per noi da Tirana. La serata dove Pasquale si esaltò al punto di esclamare:<< vengo a vivere qui, nella repubblica non più delle aquile ma dei compagni albanesi>>.

 Già, Tirana. La capitale per noi off-limits per la presenza contemporanea del Congresso della Gioventù.

 Terminò con la serata della cena di gala la visita in Albania. Il giorno dopo raggiungemmo il posto di confine da dove eravamo entrati. Trovammo tutto quanto sequestrato all’arrivo, ben custodito, con l’omaggio personale di LUI:  il suo libro  Storia del Partito del Lavoro d’Albania tradotto in Italiano. Una specie di “Mein Kampf “, la mia battaglia in versione marxista-leninista.



Arrivati a Bari ci salutammo. I miei compagni di viaggio felici e contenti dell’esperienza vissuta cantavano l’inno dei lavoratori albanesi che ormai conoscevano a memoria per le innumerevoli diffusioni lungo i trasferimenti.

Pasquale mi salutò con una pacca sulla spalla a ricordarmi lo scampato pericolo e tre baci alla Stalin. Non l’ho più incontrato.

Urano Cupisti



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