Transiberiana al tempo di Andropov

 



Transiberiana al tempo di Andropov

 

Il 1983 lo ricorderemo come l’anno in cui il mondo rischiò di essere coinvolto in una guerra nucleare. Vi ricordate?

Nel marzo dello stesso anno  terminò lo spiegamento in Europa Occidentale dei missili nucleari Pershing II; il 1 settembre  un aereo passeggeri della Korean Air Lines, finito per errore a sorvolare lo spazio aereo sovietico, venne abbattuto: morirono tutti i 269 passeggeri, tra cui un parlamentare degli Stati Uniti. Infine, tra il 2 e il 10 novembre l’esercitazione NATO,  Able Archer 83, scambiata dai sovietici per un tentativo di attacco. Ci trovammo,  per una settimana,  molto vicino all'inizio di una guerra nucleare. Era il tempo di Jurj Andropov.



Oggi ricordo il 1983 come l’anno in cui mi fu permesso di attraversare l’intera Siberia con un treno: la mitica “transiberiana”, il treno dei desideri. Quale mese scelsi? Febbraio, in pieno inverno senza sapere da lì a poco cosa sarebbe accaduto.



A dire il vero ero molto indeciso tra Febbraio, pieno inverno ed Ottobre, in autunno. Fui veggente.

“L’autunno, stagione di transizione, clima più favorevole, con i colori che ti affascinano. La maggior parte della vegetazione è composta da conifere e i colori del paesaggio cambiano completamente. Prevale il rosso acceso. Lo stesso consiglio è valido anche in primavera con la fioritura”. Così trovai scritto nelle mie ricerche presso la Biblioteca Comunale. In quegli anni Wikipedia non esisteva e il profumo della carta faceva da contorno alle scoperte sulle riviste, libri, romanzi.

L’inverno sulla transiberiana: forse la stagione più magica e le scene del film Il Dottor Zivago furono complici in questa scelta.



Certo, il freddo fu pungente. Raggiungemmo i -38°. Ma per quanto questo possa sembrare e rendere tutto invivibile, la verità fu che, se vestiti correttamente, era possibile affrontare tutte le attività consentite. Del resto ci sono città, con milioni di abitanti, che convivono con questo clima da molti anni.

Un’esperienza incredibile. Vedere e toccare la realtà della vita dei nomadi mongoli. Scoprire come persone che non hanno nemmeno l’elettricità possano vivere a temperature estreme.  Unirsi a loro e scoprire le attività quotidiane. Una sfida degna di veri viaggiatori, assolutamente unica.




E poi il piacere di vivere a + 25°/28° mentre il treno sibila nella notte siberiana a -30°. Godersi il calduccio nelle carrozze con il riscaldamento al massimo. Durante il giorno, il candido reverbero della steppa ricoperta di neve che quasi ti acceca sorseggiando un tè bollente appena fatto. Cosa vuole di più “colui che cerca”?

Tutto ebbe inizio alla fine del 1982. I contatti con l’Ambasciata in Italia visto che Andropov sembrava portare “una ventata di possibili libertà”. Infine l’Ok da parte del nascente Ufficio Turistico Sovietico, i visti accordati e il solito, scontato, memorandum da imparare bene a memoria. Abbigliamento consono, niente scarpe con evidenti sponsorizzazioni, niente Jeans, niente letture equivoche, niente valigie, solo uno zaino capiente e un sacco a pelo termico. Il giubbone? L’avremmo acquistato a Mosca su suggerimento del “compagno accompagnatore”(per essere simile agli altri). E logicamente il colbacco con tanto di stella rossa con falce e martello.



Mi ritrovai all’aeroporto Seremet’evo di Mosca atteso da Andrei, la guida assegnata che mi avrebbe accompagnato fino a Vladivostock.

Raggiungemmo l’Hotel Maroseyka, vicino alla Basilica di San Basilio, punto di ritrovo dove incontrare  tre “compagni d’avventura” provenienti da Danimarca, Olanda e Lussemburgo. Tutti di età. La conoscenza, la rilettura del memorandum in inglese e la consegna degli orari da parte di Andrei da rispettare per la cena e la partenza del giorno dopo.  Prima dell’assegnazione delle camere il controllo di quanto contenuto nello zaino. In un locale appartato dell’Hotel l’accertamento che gli abiti, pantaloni, magliette non fossero “ambasciatori di marchi occidentali” e via in un negozio specializzato dei Magazzini GUM ad acquistare il “giubbone sovietico” e il colbacco stile Armata Rossa. Il “piumino canadese” con cui ero arrivato fu ben piegato e sigillato in un sacco custodito dall’Hotel fino al momento del ritorno in Italia. E meno male che non c’era più Leonid Breznev.



Stazione Yaroslavsky in Piazza Komsomolskaya che raggiungemmo con la metropolitana. Disbrigo dei biglietti e inizio dell’avventura nella carrozza n° 3. Nessun scompartimento, letti a castello con tendine privacy. Scelsi, su suggerimento di Andrei , quella in alto, perché in quelle inferiori, di giorno, non avrei avuto un letto. Infatti la parte centrale  si “ribaltava” diventando un tavolino con due posti a sedere per mangiare, giocare a scacchi, leggere e condividere il tempo con gli altri. E poi era  un posto di passaggio, lungo il corridoio che tutti usavano per andare in bagno o muoversi tra i vagoni.

Avvertimmo un forte colpo e la carrozza ebbe “un sussulto”. Avevano attaccato due locomotori. Che figata quei Diesel CSX di recente costruzione (1979). La stella rossa primeggiava sul frontale. Pronti per la partenza con le solite scene di “arrivederci”, pianti, mani a salutare.




Perché due locomotori per solo otto carrozze? Il secondo sarebbe servito in caso di avaria del primo raggiungendo così la stazione più vicina per i soccorsi del caso.

Iniziò a nevicare e ci ritrovammo immersi nell’atmosfera magica invernale.

L’organizzazione a bordo “essenziale”; nulla lasciato al caso. “Ma che farò a bordo di un treno per giorni e giorni?”  

Quante volte mi sono fatto questa domanda. Lunghe ore di noia? Niente affatto.

Risultò far parte di una scena teatrale dove ti trovi al centro di un vociare poliglotta con cantilene inusitate. Al mattino ci si svegliava  in un posto diverso con lo scenario mutevole. Un viaggio nel viaggio.




La prima sosta fu a Kazan (795 km da Mosca), capitale del Tatarstan.  La regione musulmana dei tatari sul Volga dove l’ateismo di stato non era riuscito del tutto a cancellare le tradizioni. Avrei voluto fare una sosta di almeno un giorno ma Andrei disse che non era compresa nel programma.

I monti Urali, studiati a scuola come confine tra Asia ed Europa, iniziarono a prendere forma. Aveva smesso di nevicare e il sole illuminava le vette. Non ce ne eravamo accorti, visto la vita frenetica di bordo, ma avevamo già percorso 1.700 km dei circa 9.000 previsti.

Arrivammo a Ekaterinburg. Una Uaz militare ci prelevò per una “fuga di un’ora” a vedere  un obelisco che segna il punto d’incontro tra i due continenti dove celebrammo il rito  del brindisi intercontinentale. Spumante del Volga  e foto ad immortalare il momento. Eravamo entrati in Siberia.




Ebbi a dire:”Ma qui non fu trucidata l’intera famiglia dell’ultimo zar?”.  Uno sguardo di Andrei mi fece capire che era meglio non chiedere.

Risalimmo nella carrozza n. 3 e ci accorgemmo che i viaggiatori di prima non c’erano più. Adesso tutti mongoli diretti a Irkutsk.

Una distesa di betulle innevate preannunciava la steppa siberiana, la terra che dorme. Ci avrebbe accompagnati per molti chilometri.

Nuove conoscenze, lingue incomprensibili. Solo la scacchiera riusciva nella conversazione. Ma  avevo in serbo la mia personale arma “di dialogo” portata dall’Italia: la Nutella. Tre vasi e numerose confezioni monouso. Il delirio nella carrozza n. 3. A turno parteciparono ai vari Nutella Party anche i conduttori  del CSX.




Omsk insieme a  Novosibirsk le vedemmo dal finestrino. “Non rientrano nelle visite previste dal programma”. Irkutsk era la nostra meta.

La raggiungemmo di prima sera. Questa volta dovevamo dire addio alla carrozza n. 3 alla quale ci eravamo affezionati. Era previsto uno stop di tre giorni per la visita del Lago Baikal. Ci fu il tempo per una doccia ormai necessaria e una dormita senza il rumore dei binari con la convivenza notturna dei mongoli.

Al mattino di buonora una Uaz 452, la mitica pagnotta (buhanka), messa a disposizione dal presidio militare locale, ci prelevò dall’Hotel direzione Isola di Olchon. La pagnotta dotata di ruote chiodate mordeva la superficie ghiacciata. Perdersi nell’immensità.




Il lago Baikal ha una profondità massima di 1642 metri ed è posto a  456 metri sopra il livello del mare. Lungo 636 chilometri, largo circa 79. Rappresenta il 23% dell’acqua dolce presente sulla terra. Lo strato di sedimenti presente sul fondale è il più spesso del pianeta e raggiunge gli 8500 metri! (quasi l'altezza del monte Everest). Ciò rende la depressione profonda quasi quanto la Fossa delle Marianne! Il lago dei record e degli estremi.

Fissammo il nostro campo-base là dove il lago risulta più profondo. Tende termiche militari per due persone con tanto di stufetta a carbone per vincere il freddo della notte che arrivò fino a -38°. Vivere il lago con i soli riferimenti dell’alba e del tramonto, senza orari, camminare sulla sua superficie trasparente ed assistere all’attività gassosa unica nel suo genere: milioni di bollicine di metano intrappolate nel ghiaccio rilasciate dalle alghe del fondale. E poi vagare come automi tra lastre di ghiaccio trasparenti simili “agli insetti intrappolati nell’ambra” o seguire venature che diventano disegni geometrici e liberano i pensieri ipotizzando che siano opere degli alieni. E questo fu uno dei temi sviscerati nella serata sul pack dove consumammo l’ultimo residuo di “nutella”.

Il giorno dopo, levate le tende, continuammo la traversata con la pagnotta fino alla riva opposta per poi prendere la strada raggiungendo la città di Ulan Ude, vicino al confine con la Mongolia.



Un cartello ci ricordò che Mosca era distante 5.675 km e che ne dovevamo percorrere in treno ancora 3.500 prima di raggiungere Vladivostock.  Ulan Ude che contava nel 1983, circa 300.000 abitanti, veramente sperduta nel freddo siberiano, rappresentava e rappresenta tutt’oggi il punto di partenza della ferrovia Transmongolica diretta a Pechino. Nel 1983 assolutamente interdetta a qualsiasi straniero e utilizzata principalmente per trasporti militari.

Di Ulan Ude ricordo una statua gigantesca di Lenin, eretta a perenne ricordo della rivoluzione bolscevica, nella piazza centrale.

Cambio di treno. Non più quello “comodissimo” che mi aveva portato fino ad Irkutsk ma quello più tradizionale, mosso da una antica vaporiera a carbone con carrozze veramente “siberiane”. Tutte in legno con cuccette “chi prima arriva prima alloggia” e, al centro, una stufa in ghisa anch’essa a carbone che permetteva di avere sempre acqua calda per ogni qualsiasi uso




Avevamo un mongolo buriato che cucinava, si fa per dire, per noi. Pollo, uova, patate e pesce sotto-sale. Da immaginare l’olezzo nella carrozza. Ti addormentavi con accanto un mongolo e ti risvegliavi con un altro. Il bagno? Dietro una porticina con un buco nel pavimento che dava direttamente sul tracciato ferroviario.

Impiegammo quattro giorni con numerose fermate in paesini senza corrente elettrica dove di notte assistevi ad uno spettacolo difficilmente dimenticabile: piccoli puntini illuminati chissà con cosa, persi nella steppa innevata, a ricordarci che anche a queste latitudini si può vivere.

Andrei richiamò la nostra attenzione sul 7° fuso orario diverso da Mosca per regolare gli orologi: eravamo vicini alla meta.



Era il mattino presto quando arrivammo alla fine del binario, fine della corsa, a Vladivostok, fine della Transiberiana o inizio della stessa. Ad attenderci dei militari ed alcuni funzionari locali del partito. Nessun sorriso, nessuna stretta di mano. L’unico a salutarci fu Andrei che non rivedemmo più.

Una “ pagnotta” ci portò direttamente all’aeroporto dove un aereo dell’Aeroflot ci aspettava per il rientro a Mosca, via Novosibirsk. Di Vladivostock ci rimase una veduta dall’alto al momento del decollo.

Giunti a Mosca il solito rito degli “arrivederci” con scambi di indirizzi e numeri telefonici “inventati al momento”. Ritiro degli indumenti all’Hotel Maroseyka e via all’aeroporto Seremet’evo. Le lungaggini all’arrivo dimenticate. Check-in guidato e velocissimo come non mai.

E le foto promesse da Andrei? Mai arrivate. E quelle scattate da noi? Tutte annullate dai metal detector sovietici dell’aeroporto.




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