Corno d'Africa 1956

 

In viaggio con mio padre

Corno d’Africa. Canale di Suez, Massaua e Gibuti.1956

 


<<Allora si passa dal Canale di Suez?>> Fu il grido di gioia quando mio padre mi prospettò questo viaggio come premio della promozione scolastica.

<<Sono preparatissimo>> dissi  sfogliando l’Atlante De Agostini mostrando la pagina dove avevo annotato tutti i dati relativi all’opera: “Aperto il 17 novembre 1869, realizzato dal francese Ferdinando de Lesseps su progetto dell'ingegnere trentino Luigi Negrelli , consistente di due tratte, a nord e a sud dei Grandi Laghi Amari: la costruzione durò 10 anni. Iil canale, nel 1956, misurava 164 km di lunghezza, 8 m di profondità, 53 m di larghezza e consentiva il transito di navi con pescaggio massimo di 6,7 m.  Nel canale transitavano in media 50 navi al giorno e il tempo di percorrenza per attraversarlo era di circa 20h. Prima della costruzione del canale era comunque possibile trasportare le merci via terra, da Port Said a Suez, con i numerosi assalti dei predoni del deserto”.

Mio padre aggiunse:<<L’attraverseremo  per raggiungere il Corno d’Africa e ritornare con le stive della nave piene di “banane”. Sì, proprio banane!

Il nome della nave era Mizar, una “bananiera” attrezzata per il trasporto di frutta esotica con stive frigo per il mantenimento dei frutti.

Partenza da Genova con rotta tracciata fino a Port Said, l’entrata nord del canale.

Durante la traversata sfilarono alla mia destra e alla mia sinistra le isole dell’Arcipelago Toscano, la Corsica esposta ad est, la Sardegna, le Isole Pontine, le Eolie fino a ”sfidare Scilla e Cariddi”, lo stretto di Messina e dopo via nel mare aperto fino ad avvistare Porto Said, l’ingresso nord del Canale. Ci vollero quattro giorni , ad una velocità di 18 miglia/ora, per avvistare, di notte, le coste egiziane e la luce del grande faro alto 53m.

Dopo un’ulteriore ora di navigazione dall’avvistamento divennero ben visibili le luci della cittadina e del sobborgo di Port Fouda. L’ingresso del canale, l’inizio dell’avventura sempre sognata.

Passammo il resto della notte in rada, termine nautico che individua una vasta area marina di solito prospicente un porto dove gettare le ancore  aspettando, in questo caso, il via libera per l’attraversamento del Canale.

Al mattino, di buon ora entrammo in un convoglio di navi di diverse dimensioni, pronte per l’attraversamento.

Dune di sabbia sia a destra che a sinistra e navigazione lenta, a distanza, fino a raggiungere i grandi laghi Amari, nella terra del “nulla”. Ancora l’equivalente di circa 200km scarsi ci dividevano tra l’ultimo lago e uno dei tre porti di Suez, all’estremità sud : Port Tawfiq. 

Il Mizar, come da consuetudine, salutò il porto con lunghi fischi quasi a dire “arrivederci, tutto bene, grazie di tutto, alla prossima”.

L’ultimo saluto alle navi che ci avevano fatto compagnia ed approfittando delle stive vuote,  iniziò a fendere le acque del Golfo di Suez con una marcia in più. Destinazione Massaua.



Arrivammo di primo mattino dopo giorni di navigazione lungo le coste dell’Egitto prima e del Sudan dopo. L’attracco al molo, l’attesa delle autorità per i pass, l’inizio del carico delle banane utilizzando i bighi di bordo.

Un addetto dello spedizioniere con una lussuosa  Fiat 1400 cabriolet, rosso fiammante con le ruote bordate di bianco, venne a prendere il primo ufficiale di coperta per regolarizzare, presso gli uffici, tutti gli adempimenti dovuti e non lasciai perdere l’occasione di accompagnarlo.



Massaua, un misto di coloniale con architetture del ventennio, strade larghe alberate ma decisamente sporche, non curate. Un crogiuolo di razze, etnie diverse. Si respirava l’instabilità dovuta ad una possibile guerriglia imminente tra eritrei ed etiopi.

Ci fu detto meglio visitarla senza meta al tramonto, di sera, sicuramente non nelle ore centrali della giornata sempre molto calde.



Percepire i suoi odori, i suoi profumi, parlare in italiano con la sua gente. Percorrere Il centro di Massaua  sotto i portici bianchi della banchina, la vecchia via Roma, fino all’antico bazar coperto, consumare un buon caffè tradizionale alla Massaua Cafeteria o al Bar Torino. Massaua una città intrigante e difficile da accettare.

Poi arriva la notte, il momento di andare a dormire, l’inizio di una autentica baraonda chiassosa.  Le strade e i tetti diventano immensi e colorati dormitori di persone che abbandonano le proprie abitazioni trascinando materassi alla ricerca di “sospiri, soffi di vento”, di un po’ di refrigerio all’aria aperta. Per noi fortunati del Mizar era sufficiente munirsi di coperte, scendere nelle stive e dormire sopra le banane. Che esperienza!

La “perla del Mar Rosso” già nel 1956 si presentava come il fantasma di se stessa ed ancora doveva accadere l’occupazione da parte del Negus etiope Hailé Selassié e la successiva guerra d’indipendenza.

Il Mizar mezzo carico del “frutto dell’amor”, con la prua rivolta ancora a sud. Destinazione Gibuti.



Altra storia, altra città, protetta da tutti e da tutto, soprattutto protetta dai francesi. Arrivammo dopo aver navigato nello stretto di  Bab el-Mandeb, avvistando le coste dello Yemen distanti a malapena 16 miglia marine (circa una trentina di chilometri), attraversando il Golfo di Tagiura ed arrivando nel porto di Gibuti.



La Somalia, allora sotto una amministrazione fiduciaria italiana, ad un tiro di schioppo.

Gibuti ci accolse con i soliti rituali della preghiera musulmana. Dai minareti l’invito a dedicare ad Allah i propri pensieri. Quanto diversa da Massaua.

Ordinata, con le strade alla francese, i bistrot tutti muniti di mega ventilatori con le grandi pale e tanta gente nelle strade. Clima più disteso, tranquillo se pur “effervescente” per la presenza delle tribù più estremiste dei somali. Ma la presenza di una guarnigione francese armata fino ai denti rassicurava un po’ tutti.



Non ci fu niente da visitare a Gibuti se non passeggiare senza meta nelle sue viuzze del centro e respirare quell’aria coloniale ancora ben radicata. E la notte?

Per noi del Mizar le stive erano il nostro rifugio visto che di notte la temperatura media girava intorno ai 45°. Figuriamoci quella percepita.

Ricordo che mio padre, nelle ore più calde del giorno, quasi sempre sopra i 50°, per darmi un po’ di refrigerio, aveva predisposto a poppa, una doccia continua, con tanto di sgabello per stare seduto, alimentata da un compressore aspirante acqua del  porto, a tratti giallognola, melmosa . Ne uscivo simile ad uno zombie.  Oggi diremmo: ”una figata”.

Terminato il carico di banane, il Mizar, con il livello di galleggiamento consentito,  riprese la rotta verso Nord dissolvendosi nelle acque per niente rosse del Mar Rosso.

Fu di nuovo il Canale di Suez, con i rituali dell’andata, a rilasciare le ultime emozioni  fino all’avvistamento della genovese Lanterna. Un altro viaggio concluso ed uno prossimo già all’orizzonte.

Urano Cupisti

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