Navigando in Libano grazie al motore in panne

 

Correva l’anno 1959 e come premio per aver superato brillantemente l’esame di terza media mio padre mi portò con sè in un viaggio di quelli che sono restati indelebili nella memoria: il Libano.

Lui, come ho già scritto in passato, navigava per conto della compagnia di navigazione genovese Ignazio Messina, più precisamente sulla motonave “Oberon” destinata al trasporto di merci varie dislocate all’interno delle stive (allora i container non esistevano) con un attento posizionamento a seconda dei pesi. Operazione oltremodo difficile, eseguita quasi sempre sotto la supervisione, controllo e piena responsabilità del 1° ufficiale di coperta.


Il viaggio prevedeva una sosta di qualche ora al Pireo (il porto di Atene), a seguire Beirut (o meglio Beyrouth, com’era chiamata in quei tempi), Tripoli nel Libano, breve sosta a Latakia (Laodicea, Siria) e rientro a Genova.


Fu un viaggio durante il quale, a bordo, ne accaddero di cotte e di crude.






Tutto andò bene fino a Il Pireo. Poi, durante, la successiva traversata dell’Egeo, tra le numerose isole greche, l’Oberon cominciò a fare le bizze. Mio padre, direttore e responsabile di macchina, scrisse nella relazione quotidiana dello stato del motore principale e di quelli sussidiari che uno dei quattro pistoni mostrava anomalie. Riuscimmo ad arrivare a Beirut con molto ritardo sull’orario prefissato e, nel porto, con il sussidio di una squadra di meccanici navali allertata dallo spedizioniere locale e pronta ad attenderci all’attracco, iniziò l’intervento per risolvere l’avaria localizzata al pistone n. 3.


Per rendersi conto della gravità del problema e delle sue conseguenze, bisogna calarsi nei tempi. I due giorni previsti previsti diventarono una settimana. Le comunicazioni allora non erano certamente come adesso. Immaginatevi continue telefonate con la Compagnia a Genova quando dovevi parlare uno alla volta dicendo “passo”Meno male che io partivo al mattino e tornavo alla sera. Con mio padre era inavvicinabile. Tant’è che dormivo in una cuccetta a castello nella cabina dei due allievi ufficiali.





Se insomma tra gli addetti e responsabili della compagnia già serpeggiava un palpabile nervosismo, l’imprevisto per me rappresentò quanto di più interessante potesse capitarmi. La permanenza forzata a Beirut dell’Oberon mi permise, oltre che conoscere meglio la città, di effettuare un tour nell’interno alla scoperta di un Libano incredibile, sorprendente, emozionante. Mi accompagnava uno dei figli dello spedizioniere. Non parlava italiano, dialogavamo in francese, da me imparato alle medie. Del resto in Libano, dopo l’arabo, la lingua più diffusa era quella e lo parlavano un po’ ovunque.


Già nel 1959 la storia libanese successiva all’indipendenza (1943) era stata caratterizzata dall’alternanza di periodi di stabilità politica e di disordini. Proprio l’anno prima, nel 1958, si era registrato l’ennesimo conflitto intestino, con l’intervento delle forze americane.


Alla precarietà politica seguiva sempre una rapida prosperità economica, determinata dall’importanza che questo paese rivestiva nel Medio Oriente., in particolare come centro finanziario e commerciale. E, dopo le guerriglie interne tra maroniti (cristiani), sunniti e sciiti (arabi) e israeliani, subito tornava la voglia di emergere con riforme e modernizzazioni, insieme a un’amministrazione efficiente di stampo francese.






Fu così che dopo il 1958 l’allora presidente Fu’ad Shihab seppe imporre al suo Paese riforme e ritmi di ricostruzione tali da porlo come punto di riferimento economico, culturale e di scambi commerciali con i principali paesi europei, in particolare Francia e Italia. 


Lo chiamavano come la Svizzera del Medio Oriente,  Beirut era la Ginevra delle banche e degli affari. L’intento era di creare un grande porto franco, diciamo pure un paradiso fiscale. Le cronache dell’epoca testimoniarono non a caso molte “fughe eccellenti”, anche dall’Italia, verso quei lidi.


Ma dietro quest’apparenza, il Libano era un luogo di aperti contrasti e ciò lo rendeva ancora più affascinante. Un crogiuolo di culture, religioni, credenze e gruppi etnici dai diversi volti: antiche città, reperti romani, località sciistiche e locali all’europea, anzi meglio dire simili a la Ville Lumière, che animavano le notti lungo le coste. I suoi paesaggi che mi lasciarono senza fiato: non solo Beirut ma anche la valle di Qadisha, le grotte di Jeita, Sidone.






Potei ammirare le vestigia di un mondo antico e glorioso e visitarne la splendida capitale. Musei, edifici storici e castelli in stile francese nella Valle della Beqaa’. Ed ancora, la magnifica e imponente Baalbek, il sito archeologico più importante del Medio Oriente


Indugiai a lungo nella tranquilla valle di Qadisha, dove i paesini, lindi, immersi in boschi profumati si susseguono a perdita d’occhio. Sorprendentemente, trovai alte montagne e piste da sci spoglie in attesa delle nevicate invernali.






Respirai un passato con una storia lunga, dalle radici profonde, ma con un’inquietudine che riscontravo, da attento viaggiatore, negli occhi della gente. Mi cibai di pura emozione.


A proposito di cibo: mangiare seduto in un ristorante tipicamente parigino in una Beirut sfolgorante di luci o in piedi nei mercatini dei quartieri arabi ricchi di spezie, non ebbe prezzo. Era una cucina raffinata ove ritrovai la maestria degli chef francesi e la tradizione araba. Con la menta sempre presente a dare un tocco di freschezza, alla libanese, a tante portate.

La settimana passò velocemente.


L’Oberon, con il nuovo pistone, era pronto a salpare alla volta di Tripoli nel Libano (così chiamata per distinguerla dalla capitale della Libia).

Ci rimanemmo i due giorni previsti dal piano di bordo, ma bastarono a farci intuire il suo autentico splendore.






La cittadella conosciuta come la Fortezza di Raymond de Saint-Gilles, la Moschea Mansouri (o grande Moschea), Hammam el-Jadid, un Hammam (il complesso termale) in disuso con il suo stupefacente soffitto di vetro e mosaico e Khan al-Saboun, un meraviglioso giardino all’interno del quale trovai un laboratorio che produceva saponi e saponette rigorosamente fatte a mano: il mitico sapone di Aleppo.






Un cartellone posto sopra l’ingresso recitava “dalla sapienza mediorientale un aiuto per la vostra pelle“. Era gestito da profughi siriani provenienti proprio da Aleppo. Una tradizione millenaria dal profumo inconfondibile a base di olio di oliva e olio d’alloro.


Da Tripoli portai via, ben salde nella memoria, le strette viuzze, l’autentico labirinto di un suq fatto di negozi di gioielli, di abiti e piccoli stand che offrivano bibite fresche accattivanti, quanto pericolose per gli effetti di cui noi occidentali spesso siamo vittime.




Di Latakia (Siria) ricordo l’entrata in porto, i minareti sempre pronti al richiamo per la preghiera; un ritorno repentino nel mondo profondo arabo, quello dalle mille insidie quotidiane, dagli sguardi celati ma comprensibilmente intensi delle donne velate, dall’obbligo di tenere china la testa anche a bordo quando incrociavi uno di loro.


Ero pronto per ritornare a casa e raccontare.

Parafrasando un detto di Jim Morrison: “Come viaggiatori facciamo parte di una storia infinita”.





 

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